Il mio Leopardi è più favoloso

Il mio Leopardi è più favoloso

( di Cristiano Fortunato )

 

Quello di Martone non è il mio. Non è il mio poeta. Non è il mio Leopardi. Il mio Leopardi è quello dell’”Ultimo canto di Saffo”, delle “Operette morali”, dei “Grandi idilli” e della “Ginestra”: una sequenza logica, cronologica e poetica. Con le “Operette morali” il Leopardi abbraccia la concezione meccanicistica, trasformando il pessimismo storico in pessimismo cosmico: un sistema di pensiero imperioso, meraviglioso, favoloso. Nucleo di tale sistema è il dolore. Ma non il dolore individuale, limitato, recanatese: non quello che nasce esclusivamente dallo “studio matto e disperatissimo”, dagli angusti orizzonti del borgo natìo, dagli spasmi per la sofferenza fisica, dalla bigotta educazione materna. Non questo dolore, bensì l’altro dolore: il dolore dell’islandese, il dolore assoluto, il dolore universale: il dolore generato in tutti gli uomini dalla Natura, vista ora, dopo la metamorfosi,come matrigna. Tale differenza, che nella letteratura è visibile ad occhio nudo, nella rappresentazione cinematografica di Martone non c’è: manca del tutto. Non c’è neanche l’anello di congiunzione tra il pessimismo storico e il pessimismo cosmico: il canto di Saffo,la poetessa dell’antichità. La sua grande elegia.Il suo urlo di dolore elevato ai “numi” e “all’empia sorte”: ostili ed avverse entità astratte e metafisiche,responsabili, secondo Saffo, della sua condizione di amante ripudiata da Faone perché brutta e deforme. L’ ”Ultimo canto di Saffo”: lo struggente lamento che prepara l’ingresso della Natura nel poderoso sistema di pensiero del Leopardi delle “Operette morali”: una Natura indifferente ed insensibile al dolore degli uomini e che spiega all’islandese che la vita dell’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, entrambenecessarie alla conservazione del mondo. Il dolore in cui la Natura imprigiona gli uomini è dunque immutabile, assoluto, cosmico.

Dalle “Operette morali” ai ”Grandi idilli”: un grande salto, il passaggio cioè dalla filosofia espressa in prosa alla filosofia celebrata in versi. E che versi:

“O natura, o natura,

perché non rendi poi

quel che prometti allor? Perché ditanto

inganni i figli tuoi?

Un’accusa diretta, senza macchinosi preamboli. Ma soprattutto una rivoluzione linguistica di proporzioni“infinite”,“profondissime”,”interminate”: favolose. Dopo i grandi idilli, nella poesia italiana, del classicismo non rimane più traccia: lirica pura e romanticismo sublime.

Nulla di tutto ciò emerge dalla rappresentazione cinematografica di Martone,che ci offre un Leopardi curvo fino all’inverosimile nella sua sofferenza fisica, a tratti agonizzante nei suoi rantoli di dolore. Un Leopardi perso nei vicoli della città del Vesuvio alla ricerca, nei bordelli dei bassifondi napoletani, di ciò che il suo fisico fiacco non gli consente di raggiungere in un normale incontro. Un Leopardi estasiato e quasi attratto dal suo amico Ranieri, disinvolto sciupafemmine, contemplato dal giovane poeta mentre, nudo, esce dalla vasca da bagno col suo corpo statuario ed invidiabile. Un Leopardi che lascia “ gli studi leggiadri e le sudate carte” per una Silvia irriconoscibile, quasi invecchiata, molto al di là del “limitar di gioventù”. Sono questi i sogni, le gioie,i diletti, l’amore, gli eventi onde cotanto si ragiona nel film di Martone?

Infine, ritornando al mio Leopardi, “La ginestra”: il fiore del deserto. L’ultima fase del pensiero del Leopardi, il suo tentativo di sfuggire al pessimismo, di superare laicamente la concezione meccanicistica. Forse un estremo tentativo di evitare il rischio di una deriva di scetticismo assoluto e irreparabile. L’invito del poeta rivolto agli uomini: federarsi per difendersi dalla Natura, unirsi per combatterla e vincerla. Un’esortazione di speranza. Un’esortazione chiara. Luminosa. Favolosa.